LABIRINTO_QIl riordino delle forme contrattuali in materia di lavoro è obiettivo perseguito da molti anni, con esiti incerti e spesso rovinosi.

L’attuale principio direttivo, contenuto all’art. 1, comma 7, lett. a), della legge delega “in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, incarica il Governo, nella sua veste di legislatore delegato, di “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”.

Esso fa seguito ad una indicazione contenuta al comma 1 del D.L. 20 marzo 2014, n. 34 (il cd. primo Jobs Act), secondo cui le modifiche alla disciplina del contratto a tempo determinato stabilite in quel provvedimento normativo si dovevano inquadrare nella “perdurante crisi occupazionale” e nella “incertezza dell’attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare” ed erano giustificate, nella loro urgenza, dal ritardo nella “adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente e salva l’attuale articolazione delle tipologie di contratti di lavoro”.

Sia l’attuale previsione che quella del D.L. ora richiamato si caratterizzano per la loro indeterminatezza e, come ha osservato anche la dottrina nei primi commenti al nuovo intervento di riforma, per gli ambiti di discrezionalità tanto ampi da destare qualche legittima preoccupazione di tenuta costituzionale (si veda, per un primo commento alla legge delega, Magnani, Prima lettura del Jobs Act: dal riordino dei “tipi” al contratto a tutele crescenti (ovvero del tentativo di ridare rinnovata centralità al lavoro subordinato a tempo indeterminato), Working Paper ADAPT, n. 166/2014).

In questa sede, però, sembra utile indagare, sia pur brevemente, quale possa essere l’esito del principio direttivo sopra riportato, anche alla luce degli indizi che si rinvengono in altri luoghi della legge delega.

Ebbene, l’esito più probabile ed anche più auspicabile è quello che il legislatore delegato appronti un testo unico delle disposizioni sui contratti di lavoro diversi da quello a tempo pieno e indeterminato.

Le discipline in materia di lavoro a termine, di somministrazione di lavoro e di apprendistato sono state di recente oggetto dell’intervento, apprezzabile nelle finalità e ben congegnato, salva qualche eccezione, nella scrittura, della primavera scorsa, quando, con il richiamato D.L. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78, si è ampiamente semplificato il ricorso alle prime due forme contrattuali sopra indicate e, con riferimento al terzo istituto, si è reso più agevole il compito delle imprese, sul versante dello svolgimento della formazione.
In questi casi, è possibile affermare che l’opera del legislatore delegato dovrebbe essere mirata al consolidamento dei relativi testi normativi, alla luce dell’esperienza degli ultimi anni e del buon riscontro che hanno gli istituti contrattuali a durata predeterminata presso le imprese, senza nuovi interventi correttivi di rilievo.

Anche la disciplina del lavoro a chiamata – strumento duttile e apprezzato in tutte quelle realtà caratterizzate da una forte discontinuità della domanda di lavoro da parte delle imprese – è stata oggetto di recentissimi interventi di affinamento, prima con la cd. Riforma Fornero e poi con il D.L. 28 giugno 2013, n. 76, convertito in Legge 9 agosto 2014, n. 99, e non sembra necessitare di drastiche modifiche.

Parzialmente o del tutto opposta è la situazione delle normative sul part-time, sul cd. job sharing e, con una incursione nel lavoro autonomo, sulla collaborazione a progetto.

La disciplina del contratto di lavoro a tempo parziale è resa duttile dagli ampi rinvii alla contrattazione collettiva, ma certamente non mancano margini di suo miglioramento.

Una frontiera di recente esplorata con successo da alcuni contratti collettivi, tra cui si segnala quello delle Telecomunicazioni, è relativa all‘abbattimento del costo del lavoro supplementare.

Se è pur vero che le maggiorazioni retributive stabilite per il lavoro supplementare sono dirette a compensare il disagio che sopporta il lavoratore nel prestare la sua attività oltre l’orario di lavoro ridotto pattuito col datore di lavoro e a costituire un disincentivo per quest’ultimo, in realtà, in molti casi, lo svolgimento di attività lavorativa oltre l’orario ridotto conferisce margini importanti di flessibilità organizzativa all’impresa e permette al lavoratore di incrementare il suo reddito.

L’esperienza di quei contratti collettivi che, sia pur con riferimento a talune attività e nel rispetto di limiti e condizioni, hanno previsto l’eliminazione delle maggiorazioni per il lavoro supplementare è estremamente positiva, con esiti incoraggianti sia sul versante della produttività del lavoro che, come detto, sul versante dei redditi individuali.

Nell’ambito del riordino prefigurato dalla legge delega, quello sopra indicato potrebbe rappresentare senz’altro un profilo da tenere in considerazione.

Il contratto di lavoro ripartito (o, come sopra ricordato, job sharing) sembra essere, invece, il destinatario, insieme alla collaborazione a progetto, del riferimento che viene fatto, dalla legge delega, al superamento di talune forme contrattuali.

Questo strumento non ha mai avuto una diffusa applicazione nel nostro Paese, sia per l’oggettiva complessità della sua gestione, sia anche per l’opposizione irriducibile del sindacato (in particolare della CGIL) che, a livello nazionale come a livello territoriale, lo hanno sempre osteggiato (unitamente al contratto di lavoro a chiamata e, un po’ curiosamente, alla somministrazione a tempo indeterminato).

Al di là dei luoghi comuni sulla precarizzazione di tale forma contrattuale, l’istituto non ha neppure trovato il reale apprezzamento dei suoi possibili destinatari (giovani, in alternanza con lo studio, donne, al fine di conciliare i tempi di lavoro con quelli familiari, disoccupati, per un primo reingresso nel mercato del lavoro).
Altro forte indiziato, per una sua possibile cancellazione dall’ordinamento, è il contratto di collaborazione a progetto. Nonostante la normativa restrittiva, sia per i profili formali che per quelli sostanziali, e nonostante la serrata attività di vigilanza dell’INPS e degli Ispettorati del lavoro, lo strumento contrattuale della collaborazione a progetto è, in effetti, tuttora spesso utilizzato in chiave elusiva.
Se, tuttavia, l’intendimento del legislatore è quello di far transitare, in un arco temporale breve, le centinaia di migliaia di collaboratori a progetto nell’area della subordinazione (nella cittadella degli insiders, secondo la suggestiva e sempre attuale espressione di Ichino), essa è destinata al fallimento, nonostante le forme di incentivo previste dalla legge di stabilità e prefigurate dal altro principio direttivo della stessa legge delega per le assunzioni a tempo indeterminato.

Inoltre, varrebbe anche la pena verificare se abbia senso (e, ad avviso di chi scrive, lo ha) mantenere la possibilità di stipulare contratti a progetto, che si caratterizzano rispetto al lavoro autonomo ex art. 2222, cod. civ., per il pregnante coordinamento con il committente , per attività di elevato contenuto professionale o per soglie di reddito medio alte, proprio al fine di evitare che – dietro collaborazioni parasubordinate non genuine – si celino fenomeni elusivi.

Conclusivamente, sembra di poter affermare che – se il Governo saprà cogliere l’occasione che gli viene fornita dalla Legge delega n. 183/2014 – l’opera di semplificazione delle tipologie contrattuali attualmente in vigore potrà trovare terreno fertile nell’ampio principio direttivo che la prevede, con – in più – la possibilità di bilanciare efficacemente le nuove e spinte flessibilità proprie dei contratti a durata predeterminata con la abolizione di figure contrattuali rivelatisi non rispondenti alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano o con la delimitazione soggettiva di altri contratti (e qui si allude al lavoro parasubordinato) che si sono prestati, per decenni, a un improprio utilizzo.

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